lunedì 17 febbraio 2014

UNA MAGISTRALE LEZIONE DI BENEDETTO XVI

Potere, politica e leggi, dopo l'aperturismo conciliare Dai torchi dell'editore senese Cantagalli è felicemente uscito "Il posto di Dio nel mondo", una splendida antologia dei discorsi controcorrente su potere, politica e legge, tenuti da Benedetto XVI e raccolti con diligente cura da Stefano Fontana. La chiarezza e la profondità dei testi pubblicati, induce a rammentare che papa Ratzinger ha elevato il tono della cultura cattolica, avviandola, con erudizione sicura e illuminata cautela, all'oramai irreversibile cammino della restaurazione post-conciliare. Nel discorso preparato in previsione dell'incontro alla Sapienza, in calendario per il 17 gennaio del 2008 e purtroppo rinviato a causa di diffusi pruriti laicisti in atto nell'ambiente universitario, Benedetto XVI riconobbe la necessità (a suo tempo avvertita da Jurgen Habermas) di stabile un rapporto tra politica e verità e sostenne che l'unica soluzione del problema si trova nella filosofia di San Tommaso d'Aquino. E' insegnamento di San Tommaso, infatti, che "la filosofia deve rimanere nella propria libertà e nella propria responsabilità; deve vedere i suoi limiti e proprio così anche la sua grandezza e vastità". Ora i limiti della filosofia, secondo Benedetto XVI, si possono superare applicando la formula del Concilio di Calcedonia (451 d. C.), secondo cui filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro senza confusione e senza separazione. Di qui la soluzione proposta dal dotto pontefice: "la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a ciò che la fede cristiana ha ricevuto e donato all'umanità come indicazione del cammino". La via d'uscita dal tunnel nichilista, nel quale si è smarrita il pensiero post-moderno, è dunque indicata nell'equilibrio di fede e ragione, una feconda armonia/integrazione, che i secoli cristiani hanno stabilito e conservato. Malgrado le contrarie apparenze, è dunque possibile affermare che, per effetto del pontificato di Benedetto XVI, è iniziato il riscatto della verità cattolica, sofferente sotto la massa imprigionante/umiliante dei coriandoli lanciati dalle finestre dell'irenismo teologizzante. Nella tormentata storia della Chiesa durante l'età delle neo-rivoluzioni, la figura di Benedetto XVI rappresenta la volontà di sciogliere il nodo stretto dalla incauta/illusoria mitologia diffusa dal Concilio Vaticano II intorno all'autocorrezione dei moderni erranti. I puntuali ragionamenti e le critiche taglienti indirizzate da papa Ratzinger alle scolastiche, che avviliscono e tormentano la politica in scena nelle nazioni occidentali, comunità uscite dall'incubo ideologico per entrare nell'inferno del nichilismo, sono finalizzati al superamento degli errori piuttosto che alla loro paciosa/precipitosa assoluzione e alla loro empiamente pia assimilazione. Benedetto XVI ha iniziato un cammino opposto a quello suggerito dall'irenismo emanato dal Vaticano II. per influsso di uno smodato e incontrollato ottimismo. Nella scrupolosa post-fazione ai discorsi di papa Ratzinger, monsignor Giampaolo Crepaldi, quasi aggredendo l'opinione di Karl Rahner sui cristiani anonimi, sottolinea opportunamente il rifiuto opposto al relativismo e rammenta che "la libertà di religione non vuol dire che qualsiasi scelta religiosa conferma e verifica la libertà di religione". Opportunamente Benedetto XVI indica la causa della fragilità/volubilità della cultura di massa nella presunzione scientista: "La capacità di vedere le leggi dell'essere materiale ci rende incapaci di vedere il messaggio etico contenuto nell'essere, messaggio chiamato dalla tradizione lex naturalis, legge morale naturale". Di qui la critica inflessibile al positivismo giuridico malattia senile della modernità. Il 22 settembre del 2011, nel magistrale discorso al parlamento tedesco, Benedetto XVI, indicando la via d'uscita dall'irenismo, affrontò risolutamente il nodo del positivismo giuridico elucubrato da Hans Kelsen, attribuendolo a una ragione mutilata e perciò "non in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale" e in ultima analisi diventata strumento degli "ismi" di nuova e velenosa generazione: "Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l'uomo, anzi minaccia la sua umanità". Di qui lo svolgimento di un magistero finalizzato alla correzione dell'ottimismo infondato e delle incaute aperture alla modernità. Il 17 settembre del 2010, rivolgendosi alle autorità del Regno Unito, Benedetto XVI, dopo aver citato San Tommaso Moro, la vittima in casa degli eredi dal boia Enrico VIII, ha segnato gli stretti confini oltre i quali la moderna democrazia non può essere condivisa: "Se i princìpi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient'altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza". Benedetto XVI ha affrontato anche il nodo dell'assolutismo democratico: ammesso quale strumento indispensabile la decisione a maggioranza l'autore osserva che "anche le maggioranze possono essere cieche o ingiuste. La storia lo dimostra in modo più che evidente: quando una maggioranza- per quanto preponderante - opprime con norme persecutorie una minoranza, per esempio religiosa o etnica, si può parlare ancora di giustizia o in generale di diritto?" Per uscire dal circolo vizioso avviato dall'assolutismo democratico, inversione demoniaca dell'ordine civile, occorre superare "il culto politico opposto alla verità, che è culto dei demoni, mettere l'unico universale servizio alla verità, che è libertà". Il problema che angustia i politologi postmoderni, in conseguenza di tale premessa, è ricondotto alla verità intravista (obliquamente) dal greco Evemero da Messina (330-250 a. C.), il quale sosteneva che "tutti gli dèi sono stati in origine una volta uomini". La riflessione sul paradosso di Evemero aiuta a vedere la realtà in agitazione alle spalle della democrazia assoluta: la divinizzazione dell'uomo è fomite di una politica schiavizzante. Considerata alla luce della tragica esperienza della mitologia politica in scena nei secoli delle rivoluzioni sterminatrici, la ruvida ed equivoca demistificazione di Evemero suggerisce il riconoscimento della bontà insita nell'unica rivoluzione che può interrompere il circuito della democrazia tiranna: la certezza che "ogni religione pagana poggia su una iperbolizzazione di sé da parte dell'uomo". In ultima analisi, Benedetto XVI rivela che la infernale vanità del paganesino agisce nei sistemi generati dal pensiero prevalente nell'età moderna. L'orizzonte della libertà è pertanto avvicinabile solo dalla scienza politica capace di percorrere la via di una demistificazione, con una decisione che abbia per bersagli la tracotanza e la superbia degli uomini abbagliati e fulminati dal potere del loro denaro e storditi dagli inni declamati dai loro servi. Obbediente al consiglio evangelico di rinunciare al corteo funerario degli illusi e dei devianti, Benedetto XVI non chiama in causa gli intontiti banditori di un umanesimo integrale concepito nella luce modernizzante emanata dagli errori di rivoluzioni in corsa lungo le piste sanguinarie del delirio e dell'autodistruzione prima di accedere alle disarmate sacrestie. Papa Ratzinger allude implicitamente al fallimento procurato ai democristiani dall'adesione all'umanesimo di Jacques Maritan, ed indica una via di liberazione dalla avventizia chimera incombente sulla vita politica contemporanea: l'illusione di aver chiuso vittoriosamente la partita con le ideologie criminogene emanate dal secolo dei lumi al lumicino. La filosofia politica proposta da Benedetto XVI indica la via difficile che i cattolici devono percorre per non estenuarsi nelle manfrine politicanti al suono dei pifferi in discesa dalla montagna democristiana. Il rimanente è il girare vano dei superstiti testimoni della teologia della liberazione intorno alla confusione tra poveri e poveri in spirito.

sabato 18 gennaio 2014

Manifesto di Verona

QUELLA “MERAVIGLIOSA UTOPIA” di Filippo Giannini. Viviamo l’anno 2013; il passato novembre è stato l’anniversario dell’enunciazione di quello che viene ricordato come il “Manifesto dei 18 Punti di Verona”. Quanto in esso contenuto è la logica conseguenza delle origini fasciste del 1919: principi che hanno attraversato il “Ventennio”, con un susseguirsi costante di decreti e leggi, di chiarissime finalità sociali, che già allora erano all’avanguardia, non solo in Italia, ma nel mondo intero e senza le quali oggi vivremmo su “palafitte sociali”. Tappa fondamentale di questo processo sono i principi essenziali dell’ordinamento corporativo, espressi e ordinati dalla “Carta del Lavoro” che vide la luce il 21 aprile 1927. La “Carta del Lavoro” portava il lavoratore fuori dal buio del medioevo sociale per immetterlo in un contesto di diritti dove i rapporti fra capitale e lavoro erano, per la prima volta nel mondo, previsti e codificati. In altre parole, la nascita dello Stato Corporativo rappresentò l’intento di superare sia le angustie imposte dallo Stato liberale, sia le sanguinose illusioni dello Stato sovietico. Questo esperimento, tutto italiano, incontrò vasti consensi presso i lavoratori di tutto il mondo, tanto da spaventare i manovratori della finanza internazionale che avvertì il pericolo mortale e operò per abbattere il Fascismo e le sue idee. Cosa che si verificò con la violenza delle armi. Il 14 ottobre 1944 Benito Mussolini così sintetizzava, lapidariamente, quei “Punti” i cui aspetti vitali erano le leggi sulla socializzazione delle imprese: . Questa “meravigliosa utopia” è oggi riproponibile per risolvere i problemi che angustiano l’attuale mondo, privo di ogni remora e adagiato sul sistema di vita americano? Il teorico e storico della dottrina cattolica Don Ennio Innocenti, che tanti anni ha dedicato allo studio e all’insegnamento, ha scritto che il problema affrontato da Mussolini nell’ultimo decennio della vita . E ha aggiunto: . Che il messaggio mussoliniano sia , si evince chiaramente anche dall’ enciclica “Rerum Novarum” di Papa Leone XIII del 1891, nella quale è definita la dottrina sociale della Chiesa. In essa è ben chiara la condanna degli eccessi del capitalismo e dei monopoli; la denuncia dello sfruttamento dei lavoratori qualificandolo come peccato sociale, ribadisce, nel contempo, la legittimità della proprietà, ma solo come funzione sociale che deve essere rispettata. Pure se sembra strano, anche da oltre Oceano giunsero segni di apprezzamento per l’opera messa in atto dall’Italia del Ventennio. J.P. Giggins, autore del libro L’America, Mussolini e il Fascismo, a pag. 45, ha scritto: . E Renzo De Felice aggiungeva: . Nonostante l’accostamento di principi così elevati, il “messaggio” del novembre 1943 è stato obliato proprio da quegli stessi che si sono considerati gli epigoni e i continuatori delle idee del Fascismo e della Repubblica Sociale. In questo secondo interminabile dopoguerra è stato scritto dai seguaci di questa “Repubblica nata dalla Resistenza” che l’idea mussoliniana della Socializzazione . E’ uno dei tanti artifizi di un regime corrotto e inetto, terrorizzato dal dover affrontare un serio confronto con lo Stato che lo aveva preceduto; tanto terrorizzato che è stato costretto a creare una cortina di menzogne e, contestualmente, a varare leggi antidemocratiche e liberticide, quali la “Legge Scelba”, la “Legge Reale” e la “Legge Mancino”. L’attuabilità della socializzazione delle imprese è dimostrata dalla storia. Infatti, anche se la situazione nel 1944 stava precipitando a causa del disastroso corso della guerra, nelle imprese socializzate si riscontrò un notevole incremento della produzione. A dicembre 1944 Nicola Bombacci programmò una serie di comizi e conferenze fra le imprese socializzate e, tra queste, visitò la Mondadori, traendone sorpresa e emozione. A seguito di ciò, inviò una lettera a Mussolini nella quale, fra l’altro, scrisse: . La guerra volgeva ormai alla fine e, come ha scritto Amicucci ne “I 600 giorni di Mussolini”: . Il 20 aprile 1945 gli eserciti invasori ruppero il fronte a Bologna e dilagarono nella pianura Padana. Era la fine. I comunisti che controllavano il C.L.N.A.I., come primo atto ufficiale, firmato da Mario Berlinguer (padre di Enrico), addirittura il 25 aprile, mentre si continuava a sparare ed era iniziato “l’olocausto nero”, come primo atto ufficiale abolirono la legge sulla socializzazione. Era il dovuto riconoscimento da parte dei comunisti verso il grande capitale, per l’aiuto economico elargito da quest’ultimo al movimento partigiano, dominato al novanta per cento dai comunisti.

giovedì 9 gennaio 2014

GUAI AI VINTI !!!

QUEL VOLO DEGLI “ANGELI DEL BENE” SU MY LAI dI Filippo Giannini A loro piace essere chiamati gli Angeli del Bene, incensati dalla Divina Provvidenza ed inviati su questo triste pianeta per lottare contro le Forze del Male in quei tempi impersonati dal Nazionalsocialismo e dal fascismo. Loro, dopo l’abbattimento delle due bieche tirannie hanno continuato (e continuano) a lottare contro ogni nemico che, di volta in volta, è impersonato nel maligno. Loro hanno punito tutti i tiranni che si sono resi colpevoli di stragi e malvagità. In questa lotta contro le Forze del Male, gli Angeli del Bene hanno operato su tutto il globo ove hanno lasciato la loro traccia a Stelle e Strisce. Un volo di questi Angeli è poco conosciuto e proviamo a proporlo: riguarda un episodio (uno fra i mille e mille) che avvenne durante la guerra del Vietnam. My Lai è un piccolo villaggio vicino alla costa del Vietnam Centrale. Gli abitanti vivono di pesca e di agricoltura. Quanto stiamo per ricordare proviene da fonti statunitensi e, quindi, al di sopra di ogni sospetto La Compagnia Charly del 1° battaglione di fanteria americano si era formato e addestrata in Georgia e alle reclute . Niente di strano: erano soldati e loro dovere era quello di uccidere il nemico. Al termine dell’addestramento gli uomini della Compagnia Charly giunsero nel Vietnam dalle Hawaii, nel dicembre 1967. La Compagnia era considerata la migliore del battaglione, i loro componenti provenivano da ogni parte degli Stati Uniti e appartenevano a famiglie della media borghesia americana. La Compagnia Charly per alcune settimane fu sottoposta a ripetuti scontri con i vietcong della zona di My Lai. Durante uno di questi combattimenti quattro soldati americani rimasero uccisi e 38 feriti. Immediatamente fu predisposta una rappresaglia. I servizi segreti statunitensi ritenevano che a My Lai risiedesse il Quartier Generale dei vietcong. Era una informazione errata. Il 15 marzo 1968 fu messo a punto l’attacco contro il villaggio e l’ordine venne dal colonnello Herald Anderson, comandante della brigata, e trasmesso al capitano Ernest Mandela, comandante della compagnia Charly. Nessuno del comando ammise mai la propria responsabilità per ciò che accadde. Il sergente Kennet Hodges, reduce di quell’operazione, ha testimoniato: . L’attacco su My Lai avvenne, come in molti altri casi, con gli elicotteri. Erano appena passate le sette del mattino ed era sabato. Secondo i Servizi Segreti, a quell’ora tutti i civili erano al mercato e al villaggio sarebbero rimasti solo i vietcong. I primi elicotteri arrivarono su My Lai alle 7,35; in venti minuti tutti i 120 uomini e i cinque ufficiali della compagnia avevano preso terra e nessuno sparò alcun colpo contro di loro, né ci fu alcun cenno di resistenza. Racconta una donna, Phan Thi Tuan, scampata al massacro: . Un reduce, Varnando Simpson, racconta: . Fred William, anche lui reduce da quella missione testimonia: . Un’altra donna, So Thi Qui: . E il raccnto di una giovane donna, Phan Thi Trin: . Le comunicazioni radio rivelarono che il comando era a conoscenza del massacro. Il capitano Thompson quel giorno era a bordo del suo elicottero e in quelle ore volava basso sul luogo dell’eccidio. Quando vide che i soldati avanzavano verso un gruppo di donne e di bambini indifesi, ordinò al suo equipaggio di puntare le armi contro i suoi compagni a terra. Qualora questi avessero sparato contro i civili . La testimonianza del sergente Kenneth Hodges è sintomatica: . Malgrado la totale assenza di qualsiasi resistenza, il tenente William Calley continuò a ordinare ai suoi uomini di proseguire il massacro. La maggior parte obbedì, pochi si rifiutarono e fra questi Hanry Stanley che si oppose di eseguire gli ordini, malgrado le minacce del tenente Calley. Alle 11,30 la compagnia Charly fece una pausa per il pranzo, avevano ucciso più di 400 persone. I giornali americani, giorni dopo, parlarono di una importante vittoria e di molti nemici uccisi. Quanto è accaduto a My Lai è stato tenuto celato per molto tempo. Quando la notizia del massacro si sparse per tutto il mondo, generò una ondata di sdegno e di orrore. A seguito di ciò gli uomini della compagnia Charly furono posti sotto inchiesta e si dichiararono . Il comandante, capitano Ernest Mandela, contestò le accuse con queste parole: . Il tenente William Calley, accusato di 109 assassinii si difese sostenendo di aver eseguito degli ordini. Ebbene dei 46 uomini della compagnia Charly, colpevoli di assassinii, stupri, mutilazioni, uno solo fu condannato: il tenente William Calley. Ma l’opinione pubblica americana subì una metamorfosi: da una situazione di vergogna e di condanna si trasformò in un atteggiamento di giustificazione e di perdono. William Calley, incarcerato per tre giorni, fu rilasciato per ordine del presidente Nixon e posto agli arresti domiciliari. Tre anni dopo la prima sentenza che lo condannava all’ergastolo, fu rilasciato sulla parola. A seguito di quanto sin qui scritto, il passaggio ad un accostamento alle rappresaglie messe in atto dalle Forze del Male nel secondo conflitto mondiale, risulta automatico. Ma è un accostamento improponibile, e ci spieghiamo. Le Convenzioni Internazionali di guerra vigenti sino al termine del 1945 prevedevano, in ben circostanziati casi, il Diritto di rappresaglia, in questi termini: . Ne consegue che, pur nella loro ferocia, stupidità e inutilità, le rappresaglie messe in atto dalle Forze del Male nella seconda guerra mondiale erano, perlomeno, atti leciti. Invece, nel dopoguerra, il Diritto Internazionale, l’atto, allora lecito, venne modificato : . Di conseguenza tutte le azioni, tutte le rappresaglie messe in atto dal 1949 in avanti, non essendo ammesse – anzi esplicitamente condannate dal Diritto – debbono essere considerate semplicemente degli assassinii di massa e gli autori, veri criminali di guerra, perseguibili in ogni momento. Ci siamo spiegati?